Posts Tagged ‘Sogni

24
Mag
13

Sveglio, di nuovo

03
Dic
12

Sveglio, di nuovo

Sveglio?

Ho sognato che lavavo vestiti e stoviglie nella vasca da bagno. Stavo discutendo con una donna (mia nonna? Mia madre? Una sconosciuta? Chi cazzo era?) se il detersivo dei piatti e quello degli indumenti insieme fossero problematici, ma lei non capiva la mia domanda. È lì che ho notato che nell’acqua si muovevano delle bestioline strane, col dorso rosso scuro segmentato e tante piccole zampette. Ho pucciato un dito nell’acqua e una di quelle cose mi si è infilata nella pelle, faceva male. L’ho spremuta fuori e dicevo alla donna in questione (una amica? Una amante? Una ex? Chi cazzo era?) di ammazzarla quando sarebbe uscita, ma quella restava ingrippata abbracciata a se stessa come terrorizzata – che pena mi ha fatto. La bestiaccia l’ho spremuta fuori e ho tentato di ammazzarla subito, ma quella ha aperto le ali e bzzzz è volata in giro. Volavano, quelle piccole bastarde.

Io non posseggo una vasca da bagno.

© Stefano Re 2012

02
Set
09

nel cesto

Sono un detenuto. Passo la mia giornata con altri detenuti, noiosa e ripetitiva. Ma ho almeno due segreti. Il primo è che in realtà sono un poliziotto, infiltrato nel carcere per stringere amicizia con un altro detenuto e raccogliere, tramite lui, informazioni su una serie di omicidi. L’altro segreto è che io e il detenuto in questione stiamo per tentare la fuga. La più classica delle faccende. Il topos della fuga: dal vagone della biancheria sporca ad un tubo di cemento, verso la libertà. Ma qualcosa va storto. Ci scoprono e una guardia ci spara dietro. La mia solita sfiga, mi becca, e anche gravemente, penso. Come che sia, sanguino, fa un male boia, il mio compagno di fuga mi trascina fuori, svengo, dissolvenza.

Mi risveglio piuttosto annebbiato. Se c’era del dolore, ora è sopito. Se avevo dei segreti, non me li ricordo più, perché ho perso la memoria. Quel che so è che sono rannicchiato in posizione fetale, completamente nudo, all’interno di un grosso cesto di vimini imbottito di bambagia. Intorno vedo pareti piastrellate, qualcuna sbrecciata, tubi a vista, mobilia in ferro e vetro. Un laboratorio medico forse, piuttosto male in arnese. Ma per me non conta molto tutto questo. La bambagia è intorno al mio corpo, ma anche nella mia mente. Scivolo nel nulla.

Voci. Un uomo e una donna. Non capisco cosa dicono. Apro gli occhi, ancora tutto annebbiato. Nella stanza ci sono due persone in camice bianco. Il dottore ha i capelli bianchi, a ciuffi ribelli, stile Einstein. Occhiali spessi dalla montatura pesante. Occhi che guizzano ovunque, gesticola mentre parla, ma le parole mi arrivano confuse, un borbottio anonimo. La donna ha i capelli biondi, sciolti sul camice. Mi volge le spalle, la curiosità di vederle il volto mi pungola. Ma il sonno rimonta. Lei non si volta, il borbottio è soporifero. Dissolvenza.

Risveglio. Il laboratorio è vuoto. C’è una barella di ferro al centro della sala. Dal basso posso vedere che c’è qualcosa sulla barella. E’ coperto da un lenzuolo. Ne vedo solo un lembo, è macchiato di sangue. Non succede nulla, non ho forza per muovermi, non ne ho nemmeno voglia. Scivolo nel sonno.

Mi sveglio. La donna è in piedi presso il mio cesto. Il volto è di una bellezza fredda, solenne, poco espressiva. Gli occhi azzurri sembrano guardarmi attraverso. Il camice bianco è aperto e scollato sul davanti. Le vedo il solco tra i seni, non porta reggiseno. Le gambe ne escono nude. Sembra non portare nulla, sotto il camice. Non mi parla, ma mi tocca con strumenti medici, di ferro, freddi. Sembra soddisfatta, mi pratica una iniezione. Brucia. Mi addormento guardando la sua bocca. Le labbra carnose tirate senza espressione.

Mi sveglio. Il dottore sta urlando. Sembra essere furioso con la donna. La chiama Anna. Ora so il suo nome. Non capisco quello che il dottore le grida, ma penso sia geloso per qualche motivo. Anna risponde con brevi frasi soffocate, quasi inaudibili. Il tono è piatto, sobrio. Non pare per nulla impressionata dalla sfuriata. Il dottore si placa, si infila in una porta. Anna mi si avvicina, mi trapassa con il suo sguardo indifferente, afferra la barella di ferro e la spinge. Cigolando, sparisce nella stessa porta del dottore. E sono solo.

Mi sveglio. Anna mi cura. Mi fa le iniezioni. Bruciano. Non sorride, non parla, non mi guarda mai davvero. Eppure c’è. Una volta la tocco, le sfioro il polso con le mie dita. Mi regala uno sguardo glaciale, ma soddisfatto. So che le do piacere, non so in che modo. Mi raggomitolo nella bambagia. Mi vuole lì. Sono felice di soddisfarla. Sa che ho paura delle iniezioni. Sa che mi fanno male. A volte, quando mi punge io gemo. E’ una di queste volte che lei sorride. Un sorriso freddo, ovviamente. Ma mi riempie, brucia più forte dell’iniezione. La guardo con gratitudine, e lei ricambia lo sguardo, soddisfatta.

Il dottore urla spesso. E’ geloso di me, ora ne sono certo. Penso che sia perché sono giovane. Perché Anna passa molto tempo presso al cesto, a curarmi e a farmi male. Una volta si è fermata in piedi ed è rimasta immobile troneggiando sul cesto e su di me. Trafitto dai suoi occhi glaciali, rannicchiato in posizione fetale la ho adorata. Ero il suo porcellino d’india. Io sono felice. Non ricordo chi sono, non ricordo che cosa dovrei fare e non me ne importa nulla. Sono felice. L’unica cosa che mi inquieta è la barella di ferro. Il lenzuolo che la ricopre è sempre macchiato di sangue.

Anna non porta nulla sotto il camice. ora lo so, perché lo ha tolto. E’ entrata e si è fermata davanti al cesto. Poi ha fatto scivolare il camice giù dalle spalle, a terra. Mi ha regalato la sua nudità, senza una espressione. Poi è scesa a tormentarmi con le sue cure dolorose. Mi fa sempre male, quando può. Ma lo fa senza rabbia, con clinica precisione. Come una cosa necessaria, indipendente dalla sua volontà. Ma sappiamo entrambi che lo fa perché ne gode. La adoro per questo. E lei si beve questa adorazione con regale indifferenza.

Anna mi cura e mi tortura sempre nuda, quando non c’è il dottore. Quando si spoglia, a volte il suo corpo è macchiato di sangue, e questo mi spaventa. Dopo avermi fatto male spesso si sdraia nel cesto, con me. Mi addormento con il calore del suo corpo sul mio pieno di desiderio, dolorante e appagato. Al risveglio, lei non è mai con me. Dopo alcuni giorni, capisco perché. Lei dorme sulla barella. Aspetta che io stia dormendo poi scivola fuori del cesto. Ho finto, rallentando il respiro. La ho osservata nella luce azzurra che filtra dalla finestra serrata. Si alza e scosta appena il lenzuolo, poi si sdraia sulla barella di ferro, diventando ombra nera nel nero. Ma al mattino, quando mi sveglio, non c’è più. La nebbia si sta diradando nella mia mente. Mi sento ogni giorno più forte e lucido, e anche questo mi spaventa. Potrei cercare di alzarmi se volessi. Ma non voglio. Non voglio sfuggire ad Anna.

Mi sveglio. Anna è sdraiata su di me, nuda. Non è mai successo prima. Non la ho mai potuta osservare così. E’ indifesa, improvvisamente raggiungibile. Mi spaventa. Sorride, nel sonno, e ammicca. Ora la amo, e tutto si frammenta irrimediabilmente: non mi ha fatto iniezioni ieri sera. Tutto è chiaro oggi, niente nebbia nei miei occhi: ricordo improvvisamente ogni cosa. Sono un poliziotto. Sono evaso cercando informazioni su degli omicidi. Se sono finito qui mi ci ha portato il mio compagno di fuga. Sono stato sedato fino alla sera prima. E sono in pericolo. In quel momento entra il dottore. Ci scopre, urla. Dà fuori di matto. Anna si sveglia, si alza, cerca di calmarlo. Ma è nuda, è tesa, la sua voce stenta. Ha perso il suo potere. Cerco di muovermi, ma se la mente è chiara e risponde, il corpo rimane nella bambagia. Vuole le iniezioni, vuole dormire. Ma il dottore è scatenato. Urla, e mentre urla inizia a pisciare in giro, contro le pareti e la mobilia. Anna si riveste nervosamente, valutando l’entità della crisi. Io mi sto sforzando di recuperare il mio corpo, che ancora non risponde. Il dottore ora è vicino alla barella di ferro. Gesticola furiosamente, scaraventa via il lenzuolo macchiato di sangue, che si accuccia in un angolo come un pipistrello morto. Poi entra nella stanza dietro la porta, dove attiva un quadro pieno di strani indicatori. Anna sembra terrorizzata ora, qualcosa si muove sulla barella. Con un tonfo sordo dal bordo di ferro spunta una mano. O una zampa. Ha tre grosse dita che terminano in altrettanti artigli adunchi, e non ha pelle. Solo carne e tessuti umidi e sanguinanti.

Rotolo fuori dal cesto in qualche modo, mi punto sulle ginocchia e spingo contro la parete per alzarmi. Sulla barella c’è un corpo. A parte gli artigli, il resto sembra umano. Senza pelle, però. E ora spasmi scuotono quei muscoli. Gli artigli si chiudono, si riaprono, liquidi corrono nelle venature a vista, i tessuti si irrorano, pulsano. Mi rendo conto in quell’istante che ogni notte, dopo aver lasciato me nel cesto, Anna dormiva sulla barella, sdraiata su quel coso. Penso anche che quegli omicidi su cui dovevo indagare li ha commessi quel mostro. E che il dottore in qualche modo lo controlla, mentre Anna controllava il dottore dormendo con il mostro. L’idea del suo corpo nudo sui tessuti pulsanti del mostro mi affascina, ma non abbastanza da restare lì a vedere il seguito. Superando gli spasmi mi sollevo, zoppico verso la finestra, apro la serranda metallica con fragore. Il mostro si scuote, i tratti del suo volto sembrano coperti da una membrana irrorata di sangue, ma qualcosa si muove dove dovrebbe avere gli occhi, la bocca si apre in un urlo muto.

Il laboratorio è al piano terra. Rotolo fuori della finestra, sul selciato. Corro via zoppicando a scatti, nudo, penosamente conscio della mia vulnerabilità. Mi accorgo di perdere sangue, non so da dove, non ho voce per chiedere aiuto. C’è il sole del pomeriggio, siepi, vialetti di cemento. E sento, so, che il mostro mi sarà presto dietro. Ho paura.

*** ***

E qui, pensate un po’, mi sono svegliato. Romanzeschi avverbi a parte, il sogno è veramente questo. Prima o poi ne farò un racconto (così come l’ho descritto rende l’atmosfera, narrativamente ha troppi buchi). C’è anche un quadro che ho fatto, con Anna che spinge la barella di ferro. Anna ha i capelli rossi nel quadro, omaggio ad una mia amica. ma nel sogno era bionda platino. Le sensazioni, le interpretazioni, le ipotesi e le immagini sono rese al meglio di quanto ricordavo, anche se come tutti avrete provato è praticamente impossibile rendere appieno le esperienze oniriche. Io amo i sogni.

E, sì: ne faccio spesso.

Stefano Re © Gennaio 2005

01
Set
09

Bad Moon

C’era Stuart, con la sua vecchia Renault, che mi veniva a prendere sottocasa. Seduto davanti stava anche Ivano. Ivano s’è buttato dal sesto piano, tra l’altro. Bella scelta, dicono che si urla tutto il volo. Ma quando ho fatto questo sogno, tanti anni fa, era ancora vivo.
Montavo dietro, sul largo sedile posteriore in pelle macinata da troppe chiappe, e partivamo. Si stava su Viale de Gasperi, a San Donato, che è un bel viale alberato largo e spazioso e ci si fanno le corse in moto in culo a tutti i cartelli sulla velocità controllata che è un piacere. Tanti anni che non ho una moto, dovrò provvedere. Mi piacciono le moto, ma non tipo carenate, mi danno l’idea di mostri di plastica per buffoni con le discoteche in testa. No, a me piacciono i mezzo custom, senza manubri troppo alti e senza troppe tamarrate addosso, tipo borse con frangette e altre cosette simili. Pure e semplici cavalcature d’acciaio cromato che brontolano a quattro tempi sussurrandoti la strada non finisce mai, salta su che ti porto con me, dove non lo so ma sarà un bel viaggiare.
Comunque salivo e partivamo ed eravamo in quel bel viale alberato e c’era un bel sole bollente che filtrava tra gli alberi e il cielo era terso e azzurro come in una cartolina però io guardandomi attorno vedevo che qualcosa non era come doveva essere. C’erano dei cuscini, sul sedile posteriore accanto a me. Ivano e Stuart parlavano di cose leggere e battute stupide su di noi, sul mondo, sulle ragazze e sulla birra e tutto pareva fosse al suo posto, tranne che c’erano dei cuscini che non dovevano esserci proprio sulla pelle macinata da troppe chiappe e io un po’ sorridendo scherzoso lo dicevo, così perché proprio non dovevano esserci quei cuscini e così dicevo “hey ragazzi, che ci fanno questi cuscini qui?”
E loro due si zittivano di colpo, sapete un po’ come spegnere una radio – era accesa la radio? Potete giurarci, era sempre accesa la radio quando si saliva in macchina noialtri in quei tempi e c’era sempre del rock pesante quanto bastava ad urlarci addosso e darci sì la carica come se non bastassero gli ormoni di chi ha vent’anni, oh ragazzi.
Si zittivano e restavano lì muti e io capivo che no, non avrei dovuto dirlo dei cuscini, perché certe cose non vanno dette altrimenti si rompe la patina che ricopre tutto quanto e su cui si scivola tutti felici come fossimo fiorellini spuntati in un campo pronti a fiorire nei raggi del sole, e se le dici allora la patina si spezza e tra i fiori che marciscono sale un puzzo di morte e dita nere di oscurità che ti vengono a cercare fin nello stomaco e sono ghiacciate – ghiacciate come gli artigli ossuti di un demone che muore di fame.
Si zittivano e restavano muti e io capivo che era meglio stare zitto, porca troia, stare zitto e lasciare che le cose andassero dove stavano andando, prima che fosse tardi.
E così proseguivamo lungo il viale e si era ad un semaforo, quello che di lato c’è l’omnicomprensivo dove ho finto di studiare greco e latino per qualche annetto e fatto a botte nei campi da calcio all’aperto. Sì, certo che le ho prese, che domande sono?
Stuart e Ivano riprendevano a parlare – come riaccender la radio, anche se la radio era sempre rimasta accesa e sì, potete giurarci che c’erano gli AC/DC a gridare tutti arrabbiati alle nostre anime. Riprendevano a parlare del nulla e di tutto con quel tono che soltanto a vent’anni puoi avere, non più così ingenuo da farti sorridere ma neppure così pieno da poterlo prendere davvero sul serio. Ma c’erano quei cazzo di cuscini accanto a me e io cercavo solo di non guardarli ancora. Poi ho visto l’ombrello. Stava proprio sotto al sedile di Ivano, e no, non doveva esserci perché quell’ombrello lo avevo perso molti anni prima del sogno e lì non poteva esserci, proprio non poteva. Lo guardavo e senza riuscire controllarmi lo dicevo. Senza poterci fare niente lo dicevo, come un conato di vomito che sale e tu non puoi farci niente tranne sentirti ridicolo mentre la bocca ti si riempie di quel che doveva prendere tutt’altra strada e invece sta’ lì e spinge, dio se spinge, e ti tocca buttarlo fuori. E così l’ho detto e ho detto “ragazzi, ma questo ombrello.. quell’ombrello, ragazzi che ci fa qui questo ombrello?”
E di nuovo calava il silenzio, e stavolta nello specchietto gli occhi di Stuart si fissavano nei miei e in quello sguardo duro c’erano tutte le cantine polverose in cui da bambino non vuoi scendere, c’erano le ragnatele e l’odore di foglie marce da cui spuntano le ossa, c’erano le lapidi alte e grigie che ti dicono chiaro che sarai cibo per vermi.
Calava il silenzio e se Ivano teneva la testa china, come dispiaciuto, Stuart mi piantava gli occhi addosso dal retrovisore come un monito, come l’ultimo monito che puoi sentire prima che sia davvero tardi. Ed io sentivo il freddo salire sulla schiena e sapevo che stavolta mi ero spinto troppo oltre. E tacevo anche io, sperando che gli ACDC cancellassero tutto e ricoprissero tutto, che quelle ossa tornassero a riposare e il sole tornasse a filtrare dai rami degli alberi a lato di Viale de Gasperi.
Ed era verde, era il verde che arrivava a salvarmi, a salvarci tutti quanti, perché quando scatta il verde ad un semaforo il piede passa dal freno all’acceleratore e l’altro piglia la frizione per infilare la prima, non ci sono santi che tengano né lapidi da rispettare. E col verde ripartivamo, ma stavolta non parlavano, né Stuart né Ivano, mentre gli alberi scorrevano a lato della strada e il sole ora sembrava anemico e malato, ferito a morte da quello che non avrei dovuto dire, maledetto ombrello perso che doveva restare perso.
E il freddo non passava, restava nella mia schiena anche se gli occhi di Stuart erano tornati a fissare la strada e anche se Ivano ciondolava la testa a ritmo della musica come a dire che sì, dopotutto era passata anche questa.
Era allora che vedevo che c’era una luna grande, troppo grande, nel cielo che non era più azzurro ma grigio e morto come una immensa lapide. E allora non potevo, non potevo più stare zitto cazzo. La indicavo con il dito, attraverso i sedili puntato contro il parabrezza, e lo dicevo chiaro e tondo: “cristo ragazzi, che ci fa la luna di giorno in mezzo al cielo? E perché è così GROSSA?”
E allora taceva tutto, persino gli ACDC non arrivavano più fino a me, mentre sia Stuart che Ivano, lentamente ma inesorabilmente, si voltavano a fissarmi coi occhi duri e neri e privi di vita, con occhi che accusavano senza più nessuna attenuante – e Stuart mollava persino il volante, perché ormai non c’era più bisogno di fingere nemmeno quello, non c’era più neppure bisogno che qualcuno fingesse di guidare. Era allora che Stuart e Ivano si voltavano a fissarmi con occhi ciechi e pieni di ombre, con occhi che nemmeno mi vedevano più, perché stavolta avevo davvero allungato troppo la gamba, stavolta ero andato davvero troppo oltre, e stavolta era davvero – davvero troppo tardi per rimediare.
Ed era allora che vedevo che non c’erano la maniglie per aprire le portiere posteriori dall’interno. Era allora che vedevo che nel cielo ormai nero troneggiava solo questa luna immensa e grigia di granito – ma dove cazzo era finito il sole? Questa luna grigia e immensa che non dava nessuna speranza, neppure delle parole graffiate su di essa ma solo crateri neri come pozzi su un’altra dimensione, solo scarabocchi di incubi pieni di sudore. Era allora che il freddo mi prendeva tutto, ghiacciandomi dalla testa ai piedi, a guardare quella luna sempre più grande, con addosso gli occhi puntati di Stuart e di Ivano, testimoni della mia colpa, del mio estremo ed ultimo peccato di superbia. Era allora che la macchina si staccava dalla strada, si impennava e puntava diretta verso la luna che ormai riempiva l’intero parabrezza.

Stefano Re ©Settembre 2009

05
Ago
09

Un casco da palombaro

(a Isabel)

Il treno mi corre attorno e mi porta verso sud senza chiedere niente. Mi sono appisolato con la testa dondoloni su quei sedili che ti domandi perché mai li han fatti scomodi con quello che ci avranno speso. Fatto sta che sì, mi ci sono appisolato e ho sognato, e appena ho aperto gli occhi ho capito che entro pochi secondi avrei perso memoria di tutto quello che avevo visto nei labirinti della mia testa bacata e così rovistavo nella borsa cercando qualcosa su cui scrivere ma trovavo solo calzini e pacchetti di sigarette e pacchi interi di birre ancora fredde e già sentivo scivolare via tutto dalle maglie della memoria come rena dal secchiello traforato.
Quando il cellulare ha squillato, ho capito che dio c’era.

– Lana? Lana! Dio che bello che mi hai chiamato ora! Sì, sì, tutto quello che vuoi, basta che non riagganci
– Sì Lana, lo so Lana. Devo restituirti quella collanina nera e sì, sì, sì cazzo sì il reggiseno viola ma ora ascolta, ascoltami, ho appena fatto un sogno e mi sta svanendo dalla testa ma se lo racconto forse lo ricorderò quindi sta’ zitta e ascoltami e cerca di ricordare
– Sono in treno, …sì, Roma. Questo coso infernale macina kilometri dopo kilometri dopo kilometri. Ed io ho queste birre, Adelscott ghiacciate, oddio ormai ghiacciate no, ne ho pacchi interi nella borsa e tre giorni fa mi sono suicidato ma
– No, lana, non sono sbronzo, ho bevuto una sola birretta
– Quella del suicidio te la racconto un’altra volta e adesso ascolta perdio!
– La birretta andava liscia liscia e mi sono appisolato e ci-tutum ci-tutum ci-tutum il treno mi ha cullato ed ecco che ero ad una specie di festa o fiera assurda. C’erano un sacco di persone sorridenti e qualcuno indossava roba invero curiosa, tipo maschere di peluche o cappelli a tuba e tutti camminavamo in queste stanze dalle pareti bianche o grigie con delle colonne larghe come sequoie messe a vanvera ma il pavimento era fatto di assi buttate lì a casaccio, tutte storte, tramezzi di legnaccio che talvolta crollavano pure e sotto c’erano pezzi di cemento, acqua fumigante, tubi, ferraglia e altre rozzerie in puro stile cyber – il cyber PRIMA del web eh – ma tu manco te lo ricordi il mondo prima del cyber, lascia stare. Ad ogni modo alla festa o fiera che fosse su quei legnacci tra i tanti c’ero pure io e c’era anche Lei
– No, non la conosci, la conosco appena persino io, le ho chiesto un accendino sarà stato un mese fa mentre della gente veniva legata e appesa e altri mangiucchiavano salsicce calabresi e sorseggiavano spumante.
– No, questo non è il sogno questo è vero, è dove ho conosciuto Katharine Hepburn. Ma adesso aspetta, devo raccontare prima che svanisca, devo raccontare quindi sta’ zitta e ascolta.
– Alla festa c’ero io e c’era Lei. Non so il suo nome, io la chiamo Katharine Hepburn perché mi ricorda Audrey Hepburn in colazione da Tiffany. No, non domandare, accontentati e ascolta che il resto sfugge.
– Non chiedermi perché, ma io e questa ragazza eravamo tipo stati eletti coppietta della festa o fiera che fosse, anche se poi ci conoscevamo appena anche nel sogno, e così ci portavano tutti in giro a festeggiare. Sai, ci prendevano sottobraccio, coi bicchieri in mano, e ridendo scemenze facevano tutti a gara a passeggiare con me o Lei su quelle assi traballanti. Erano tutti vestiti in modo un po’ assurdo, abiti da sera con spacchi improbabili sul petto o sulla pancia, tutti pieni di gioielli dappertutto, appesi agli abiti o direttamente ai corpi, sulle labbra, sul naso, sulla fronte, persino tra un dito e l’altro. Lei indossava un abito lungo color panna e oro e degli orecchini dorati che le correvano in forma di piccole goccioline aderenti come incollati lungo la pelle dalle orecchie sul collo fin sotto il mento dal lato destro, o almeno io ricordo quello sul lato destro non ho idea se anche l’altro facesse così. I suoi capelli scuri erano raccolti sulla nuca e sulla testa, con dentro tipo spilloni anch’essi dorati e gli occhi le luccicavano alla luce delle torce appese alle pareti ed era bellissima, bellissima giuro. Io indossavo un vestito assurdo, stazzonato e giallo spento, di quelli che potrebbe indossare solo Elton John e solo da ubriaco, con delle spille sulle tasche sul petto come frangette che tintinnavano e mi sentivo come un lampadario fissato male al soffitto durante un terremoto e mi aggiravo un po’ goffo bevendo tutto quello che mi veniva offerto. Attorno a lei facevano la ronda i maschietti della festa, attorno a me le fanciulle. Io volevo tanto restare solo con Lei e baciarla sull’orecchio destro, fare correre le mie labbra lungo le pietre incollate sulla pelle lungo il collo fin sotto il mento, ma eravamo i festeggiati e così mi trascinavano continuamente da qualche altra parte. Due ragazze mi stavano portando a braccetto una di qui l’altra di là e tutti ci fermavano incrociandoci e stando in equilibrio precario su quelle assi sconnesse scambiavano con me qualche smanceria tutta sorrisi sorseggiando vino trasparente e fortissimo in calici alti e sottili. Una delle mie due rapitrici portava un orecchino fatto a forma di mondo e guardandolo bene vedevo che era proprio un piccolo mappamondo che girava piano piano sul suo asse e a guardar ancora meglio si vedevano i continenti e persino le città e a metterci il naso sopra potevi vederci anche la linea ferroviaria tra Milano e Roma su cui stava viaggiando il mio treno in quel preciso istante. Tutti parlavano e parlavano e io a volte neanche sentivo che cosa stavano dicendo ma sembravano contenti, contenti capisci? E cristo di un dio anche io ero contento. Spesso qualche ragazza mi faceva l’occhiolino e io le mollavo un bacetto casto su una guancia. Ad un certo punto Lei mi passava vicino ed io le dicevo: fammi vedere quegli orecchini. Lei ammiccava, diceva: la mia pelle è integra non preoccuparti. Poi si avvicinava tanto da farmi sentire il profumo dei suoi capelli e ridendo mi sussurrava: guarda che io vedo tutto eh? E il suo sorriso era quello della Madre di Dio o della dea Kalì o forse tutt’eddue le cose.
– Non so dove fosse finita la festa ma d’un tratto camminavo con Lei di fianco lungo delle specie di viottoli, sempre pareti di pietra o cemento, grigie o bianche, sempre col pavimento di legnacci sconnessi e buttati lì alla cazzo. Ai lati erano tutti capannoni fatiscenti, messi assieme tra pietra, cemento, legna e lastre di ferro, ed erano degli empori o magazzini di roba rara e introvabile. Io e lei cazzeggiavamo, girellando come per caso da turisti, ma stavamo cercando delle maschere. Più che maschere però lì vendevano veri e propri costumi, e qui diventa un po’ difficile da spiegare. Per esempio c’era in esposizione una specie di elmetto da palombaro, con una larga visiera e treccine che cascavano dalla parte posteriore come capelli rasta neri e lucidi di grasso da motore, oppure un altro che sembrava un casco da moto con grossi occhialoni ma fatto di un materiale che cambiava colore in continuazione. E più avanti altri bazar mostravano altre maschere, ce ne erano con grandi specchi a forma di goccia come gli occhi di una mosca e angoli e sporgenze dove non dovrebbero essercene. Quasi tutte le maschere non erano in vendita da sole: una ad esempio aveva delle specie di larghi baffi sporgenti e un tubo dietro che terminava in una bara. Sì, proprio una bara, una cassa da morto insomma. Compri la maschera e compri la bara. Un’altra che ci piaceva sembrava un po’ il casco di Darth Fener o Darth Vader o come diavolo lo vuoi chiamare, solo che aveva insieme anche una specie di largo cappotto rigido di un materiale tipo gomma che terminava in una sorta di piccolo motoscafo. Il venditore ci mostrava tutto, fiero fiero e pronto a concludere ma non avevo idea di come portarmi via un motoscafo io, così passavo avanti.
– E mentre resto indeciso e curioso a sbirciare queste meraviglie mi accorgo che Lei non è più lì con me. l’avevo persa di vista nella confusione e ora mentre la cerco in quei viottoli stretti da pareti di cemento e pietra bianca o grigia mi accorgo che tutti stanno sbaraccando. I venditori ritiravano la merce esposta nei magazzini e sbarravano le entrate, la gente spariva non so dove e le tavole di legnaccio sotto i piedi si spostavano aprendo squarci sempre più larghi sotto i miei piedi. C’erano tizi in maniche di camicia tutti sudati che le stavano togliendo, le sollevavano e se le portavano via. Per le stufe, per l’inverno! Mi ha gridato un vecchio sdentato con un sorriso da ebete. Ed io correvo all’indietro sui miei passi cercando Lei ma anche cercando la maschera giusta, quella che – ne ero certo – avrebbe rimesso tutto a posto. Dovevo trovarla prima che tutti i negozi chiudessero, ma le assi mancavano ormai quasi dappertutto e saltellavo barcollando per evitare le voragini e le assi rimaste ondeggiavano tutte ed erano mezze marce – per questo, ovviamente, non se le erano ancora prese – e cedevano sotto il mio peso e alla fine rovinavo sotto il livello del pavimento, aggrappandomi alle pareti di cemento o pietra bianca o grigia e spezzandomi le unghie nel vivo per frenarmi e là sotto c’erano blocchi di cemento sbrecciato e cavi arrugginiti e tubi di ferro e macerie e calcinacci e l’acqua ribollente che saliva mentre io scivolavo giù. Uno dei tizi che là sopra stavano portando via le assi mi gridava Attento, non nell’acqua! Ma io c’ero già mezzo dentro, e i miei vestiti ne erano zuppi e fumavano – fumavano – mentre io bruciavo, e bruciavo e bruciavo.
– Lana? Sei ancora lì?
Sto bruciando.

Stefano Re © 2009




Stefano Re

Questo Blog raccoglie racconti, riflessioni, illazioni, delazioni e deliri di Stefano Re.

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