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05
Giu
13

Il punto è che

il punto

Il punto è che.

Mi fanno notare che “sembra tu sia un esperto di Antartide, come mai ti appassioni tanto a questo argomento?” quando ecco non è affatto così. Dell’Antartide a me non importa proprio un cazzo. Né dei ghiacci in generale, né del surriscaldamento globale, che ci sia o che non ci sia.
Il fatto è che io scrivo sempre la stessa identica cosa.

Quando dico che la realtà è una opinione e che scegliersela è un atto di responsabilità.
Quando dico che se un partigiano stupra e tortura sarà anche un partigiano ma resta un criminale e non mi pare una buona idea incensarlo come eroe della patria.
Quando dico che la scienza è un modo di pararsi il culo esattamente come la religione, la stregoneria, l’ideologia politica, il tifo sportivo o la fede in Elvis Presley.
Quando dico che abbiamo perduto il senso della forza e del suo uso.
Quando parlo dei Drive.
Quando parlo di Memento o di Fight Club o degli zombie di Romero.
Quando parlo di sessualità alternativa.
Quando affermo che il BENE e il MALE son roba nostra che ci tocca definire e che se li vogliamo soltanto sentire arrivare da dio e ripeterli pari pari allora siamo delle radio e non degli esseri pensanti.

Il punto è che.

Se dico che mi suona strano che ci sia un riscaldamento globale mentre il ghiaccio aumenta anziché diminuire mi si risponde: ah, vuoi fare l’uno contro tutti?
Il punto è che se sono TANTI GIORNALISTI a dire che il ghiaccio si sta sciogliendo allora conta di più di quel che dicono i POCHI scienziati che al polo sud ci vivono? Il punto è che se in dio ci crede TANTA gente da TANTO tempo allora cazzo dio c’è di più. O anche che la tua teoria dei drive è originale, troppo originale: chi credi di essere per azzardare una teoria tua sull’evoluzione del genere umano?
Il punto è che ripetere che Brawndo è quello che vogliono le piante perché ha gli elettroliti è facilissimo. Azzardarsi a provare con l’acqua invece non è per niente facile, perché non lo dice nessun altro. Diventa possibile solo quando qualcuno afferma che sa parlare con le piante e che quelle vogliono l’acqua, perché lì entra in ballo la fede nel potere superiore. Ma se occorre ragionarci sopra con la propria testa no, cazzo, così è pericoloso: così c’è corresponsabilità.

Firmavo tempo addietro con “il mio obbiettivo non è vincere, è evolvere” e ci credo ancora molto: vincere e perdere è un gioco anche divertente, ma tremendamente paralizzante. Poi vabbé, tutto si può rileggere come pare e piace, e a chi fa piacere così può leggere questo post come un auto pompino. O persino come un ribadire i contenuti che ho accennato in giro (e questa lettura sì, questa è davvero degna di Idiocracy).

Per gli altri, quelli che magari ci leggono qualcosa di diverso, lo spunto per valutare quanto la struttura del pensiero sia una trappola, il suo contenuto semplice formaggio sul meccanismo di scatto.

Stefano Re ©2008

02
Giu
13

Il Jazz del perché

il jazz del perché

Un occhio decide di osservare? Può chiudersi oppure aprirsi, guardare di qui o di là, ma decidere di osservare non lo riguarda proprio: è una domanda che non c’è.*

Il “perché” è una domanda che non c’è – se ti piace la filosofia. Oppure che questi dati concettuali si relazionano tra loro sotto il metro di Plank, se preferisci la Scienza.

Ma si può passare oltre, si può pensare senza avere più bisogno di un perché.

Eccoci un ulteriore metalivello: dal posso (livello della misura) al voglio (livello dell’espansione) il sono è viziato da malattie differenti – tra cui i tuoi “perché”. Se però passi al devo (livello di chiusura del cerchio) ecco che la tua risposta torna d’attualità: sei l’unica cosa che sei (e dunque il mondo è ciò che è) perché così ti sei attuato.

*al riguardo, io trovo davvero curiosa la fallacia della domanda assurda. Il fatto è che gli esseri umani hanno questa curiosa tendenza a ripetere coattivamente un modello di interpretazione quando ha dato loro soddisfazione, anche però fuori dei regni in cui esso ha dominio. La domanda “perché” è difatti uno strumento di grande valore finché il terreno su cui si posa ha forme che la nostra mente è in grado di possedere. Serve al bambino per definire le misure del suo mondo percettivo e quindi posizionarsi in esso. Insomma il “perché” non è una vera domanda (come tale non ha mai risposta) è un segugio che ci conduce fino ai limiti del misurabile. Poi però va lasciato lì: spostare la domanda “perché” oltre il dominio del formalizzabile NON è come insistere a voler misurare la distanza tra due gluoni con un righello di 15 cm, che pur impossibile è una questione di mera scala (size matters insomma), è come voler prendere con le mani un raggio di luce.

Il bello è che, a domanda impossibile, l’essere umano trova coerentemente risposta impossibile:
– perché esiste l’universo?
– Dio!
🙂

23
Mag
13

Tutto il tempo che vuoi

time

Una delle affermazioni più comuni che mi mandano in bestia è: “vorrei, ma proprio non ho tempo”. Che diamine: il tempo manco esiste, tu esisti! Sei tu che decidi cosa fare ora, cosa fare dopo, cosa fare ancora dopo, e per quanto andare avanti a fare questa o quella cosa. Il tempo è come il danaro: concetti che abbiamo inventato per facilitarci la gestione dell’esistenza. E invece, chissà perché, la maggior parte delle persone finisce intrappolata a inseguire questi concetti, creati per servire, che finiscono per dominare.

Che poi, scrivo “chissà perché” solo per galanteria: succede per codardia. Perché è più facile faticare servendo che faticare decidendo.

Se decidi, oltre che la fatica, ti tocca anche la responsabilità.

Non tutti hanno la stoffa per essere il proprio Dio.

16
Mag
13

dalla SEMANTICA alla PRAGMATICA (passando per Dio)

.

La parola Dio, con tutti i sottocodici che la hanno accompagnata, non è PER NULLA un gioco di parole di tipo teorico e filosofico *e basta*. E’ prima un gioco di parole teorico e filosofico ed è POI una ricaduta pragmatica che ha comportato effetti diciamo abbastanza visibili nel corso dei secoli. Cosette tipo genocidi, crociate, vite dedicate ad esso, vite salvate in suo nome, vite stroncate in suo nome, sistemi politici nati cresciuti o cancellati per esso.
Ma stiamo anche nel piccino, che magari ci tocca di più: un gioco di parole chiamato Dio finisce col decidere se un gay viva bene questa sua pulsione o la viva male, magari per tutta la vita. Decide se la fanciulla che corteggi te la dà oppure no (in molti valuteranno questo aspetto più importante di crociate e genocidi, immagino). Decide se antenne di Radio Maria faranno o meno ammalare i tuoi figli e se un tribunale le farà togliere o invece no. Decide se l’IMU lo paghi tu e anche loro oppure solo tu. Decide a volte se un tal libro possa o meno aver diritto ad essere usato in una università oppure no. Decide un sacco di cose.

Certi “giochi di parole” fanno ben altro che far passare il tempo in un forum o soddisfare l’ego di Stefano Re.

02
Set
09

La passione di Cristo

La passione di Cristo è un film notevole.
Aldilà delle molte polemiche che lo hanno accompagnato, personalmente ritengo che segni il passo nella filmografia che si è occupata della figura di Gesù, per più di un motivo.

Anzitutto, le intenzioni. Mel Gibson, a mio giudizio, aveva un obiettivo preciso nel presentare con tanta determinazione la cruenza delle torture e della morte subite da Cristo. La passione e la crocifissione sono infatti state rappresentate sempre in modo assai “pulito” e incruento, fornendo allo spettatore una visione diafana, essenzialmente simbolica di quei vissuti. Gibson decide invece di fornirne il dettaglio umano, restituirne la crudezza esplicita, mostrando allo spettatore le carni lacerate e le ferite sanguinanti senza alcuna pudicizia estetica. Questo comporta almeno due passaggi essenziali: anzitutto riporta il cristo alla dimensione umana agli occhi dello spettatore. Se, nella religione cristiana, il messia si è sacrificato addossandosi tutti i peccati del mondo per mondarne noialtri, Gibson ci rammenta che non lo ha fatto con un gioco di prestigio indolore, che le corregge romane rompevano pelle e carne per davvero, le travi della croce erano di legno massiccio, le spine di rovo tagliavano la pelle della fronte e non stavano lì per bellezza. Insomma un Cristo fatto uomo e crepato in modo totalmente umano, sotto violenze totalmente umane. Il credente, nel vedere questo spettacolo, è condotto a rendersi conto che la crocifissione non è una barzelletta o un disegnino ma qualcosa di profondamente umano e doloroso, che lo riguarda da vicino.

La particolare efferatezza della sorte di Gesù appare costellata di casualità: per un soffio egli non viene salvato dal martirio in molte occasioni. Pilato si oppone alla sua morte, e lo manda alla fustigazione per salvargli la vita accontentando il sinedrio, ma i suoi ordini vengono travisati e i legionari infliggono al prigioniero un supplizio da solo in grado di ucciderlo. La scelta tra lui e barabba viene fatta ancora una volta nella speranza che il popolo condanni un assassino temuto, ma ancora una volta il destino di Cristo è segnato dalla peggiore delle sorti. È evidente nella narrazione filmica che quella sorte non è frutto del mero caso bensì parte di un programma preciso, divino appunto, che deve condurre l’innocente alla peggiore delle morti, scatenando il male degli uomini contro il rappresentante dell’innocenza, che con il suo sacrificio li mondi del peccato.

Poi, alcune coraggiose scelte narrative. Ad esempio quella di voler ricostruire in modo ancora una volta realistico e brutale i personaggi. Dall’odio dei farisei alla brutalità spiccia dei soldati romani, dalle partigianerie dei passanti al sorriso sdentato e stolido di Barabba, dai dubbi di Ponzio Pilato alle lacrime di Maria, la galleria di questi personaggi non trova paragoni nella filmografia precedente. Vedere i Barabba, i Pilato di tanti altri film dedicati alla vicenda a paragone con quelli offerti da Gibson strappa un sorriso amaro allo spettatore. Gibson li rende reali tanto quanto la filmografia precedente li aveva resi stereotipi e simbolici. Un bagno quindi nella realtà di un’epoca di cui abbiamo ricordi solo simbolici, resi emotivamente nulli dalla ripetizione del messaggio. In questi termini, l’evangelismo militante di Gibson risulta evidente.

In particolare la scelta dell’uso delle lingue originali è una trovata geniale, che offre una resa davvero eccezionale del clima, delle sfumature e dei distinguo in una realtà a noi tanto lontana. Spero sinceramente faccia scuola e diventi regola nei film ambienti in altri periodi storici, e magari anche nel raffigurare ambienti in cui si parli per ragioni culturali o geografiche lingue diverse dall’inglese.

Tornando al messaggio del film, oltre all’evidente evangelismo militante, trovo interessanti alcune sottolineature che Gibson ha voluto dare. Proprio nel narrare con tanta veridicità questa storia, Gibson pone inevitabilmente lo spettatore di fronte alla domanda. Finché la vita e la passione di Gesù restano favoletta stereotipa e soffusa di nubi di incenso, la propedeutica regna sovrana: si tratta di insegnamento per l’ascoltatore, amen. Ma qui non c’è nessuna retorica, non c’è nessuna simbologia sublimata: ci sono sangue e carne ferita, lacrime e sabbia, e lo spettatore viene scosso tanto nella sua emotività quanto nella sua razionalità vigile. Per cui la domanda giunge inevitabile:

La domanda, aldilà delle meccanica dei giochi e della loro rappresentazione, è questa: perché?

Perché mai il diavolo e Dio sarebbero in ballo sulla sorte di questo particolare individuo? Quale sarebbe la posta in gioco? Perché morendo innocente tra mille sofferenze Gesù segnerebbe un punto a favore di Dio e dell’umanità?

Nella raffigurazione di Gibson i tempi erano talmente empi ed ebbri di violenza e crudeltà che il diavolo poteva tranquillamente passeggiare tra gli uomini come fosse nel suo regno, e occorreva dunque da parte del padreterno una presa di posizione specifica. Gesù dunque arriva a fare da spugna per pulir via il male dall’uomo e raffigurare il perdono ed il monito di Dio in un colpo solo. Nelle facce spaventate dei suoi aguzzini in fuga dopo la sua morte ed il terremoto, il diavolo perde ogni potere e lo vediamo urlare di rabbia mentre viene precipitato nel suo arido inferno.
Ma tutto ciò è, in modo evidente, di importanza soltanto nel gioco delle parti Dio / Satana, perché gli uomini non sono cambiati dalla venuta di Gesù. Tanto che, a distanza di duemila e passa anni, abbiamo le stesse crudeltà, le stesse violenze vive e vegete a punteggiare la nostra permanenza sul pianeta terra. Quale che fosse l’importanza strategica della passione di cristo dunque, essa ha luogo soltanto dal punto di vista dei due sommi giocatori, e non ha esito decisivo per la condizione umana in sé, perlomeno non in termini percettibili all’essere umano stesso.

Gesù e la sua venuta, passione e morte per segnare un punto, insomma, nella partita. Una partita di cui gli uomini, tutti gli uomini, dai crudeli soldati romani rotti alle sofferenze proprie ed altrui al colto e dubbioso Pilato, dal ghignante assassino Barabba agli ispirati discepoli, da Maria madre in lacrime al bilioso Kaifa sarebbero tutti pedine più o meno consapevoli, oggetto del contendere senza nessuno specifico valore aggiunto.

Da buon ateo, questo film mi è piaciuto parecchio. Non so se lo avrei apprezzato altrettanto se fossi stato un credente.

SCHEDA
La passione di Cristo
regia di Mel Gibson, anno 2004.
Personaggi e interpreti:
James Caviezel – Gesù
Maia Morgenstern – Maria
Monica Bellucci – Maria Maddalena
Mattia Sbragia – Kaifa
Hristo Shopov – Ponzio Pilato
Rosalinda Celentano – Satana

La passione di Cristo su IMDB [eng]




Stefano Re

Questo Blog raccoglie racconti, riflessioni, illazioni, delazioni e deliri di Stefano Re.

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